Archive for the ‘tempi violenti’ Category

Finchè c’è vita c’è speranza

27 agosto 2015

Circa un anno fa raccontavo questa storia, in una piccola città, provinciale quanto basta, scossa dall’arrivo di migranti, rifugiati, richiedenti asilo. Oggi molto e niente è cambiato. Il centro di accoglienza è sempre lì, i migranti pure, l’attenzione in città è calata, la gestione dei centri finita nello scandalo di mafia capitale.

Io continuo a piangere i morti in mare, nei tir, nelle stive. Continuo a guardare immagini atroci di barche che affondano e muri che si alzano, ascoltare parole d’odio e indifferenza, ingoiare una rabbia difficile da dire e fare i conti con un’impotenza che destabilizza.

Eppure continuo a sperare che quella giovane donna dallo sguardo fiero sia tornata a sorridere e che le sue figlie possano crescere felici.

Viso giovane e bello, sguardo fiero, occhi chiari. N., 27 anni, palestinese nata e cresciuta in Siria, è una delle donne che da lunedì notte è ospite nel centro di accoglienza di Santa Palomba a Pomezia. La trovo seduta all’ombra di un albero nel parco giochi del quartiere, insieme al marito e a un’altra famiglia di rifugiati. Guarda le figlie, 3 e 4 anni, giocare sulle giostre. Tardo pomeriggio, il parco è vivo: i bambini giocano, gli adulti chiacchierano. Da una parte un gruppo seduto sul prato, due donne col capo coperto. N. vuole parlare, raccontarmi la sua storia, e lo fa con un sorriso dolce e amaro insieme, gli occhi lucidi.

“Io sono nata e cresciuta nel campo profughi di Yarmouk, in Siria. Mia madre aveva appena una settimana quando la mia famiglia si è rifugiata in Siria dopo la Nakba del 1948. Quando tre anni fa è scoppiata la guerra abbiamo perso tutto: casa, lavoro, soldi. La nostra zona è stata una delle prime ad essere bombardata, non avevamo più cibo né luce. Mio marito, M. 32 anni, si è trasferito in Libia e noi, io e le mie figlie, lo abbiamo raggiunto 6 mesi fa, quando la situazione in Siria è diventata insostenibile. Da Damasco siamo arrivate regolarmente in Egitto attraverso il Libano, poi ci siamo spostate come potevamo fino in Libia. Un viaggio che ci è costato seimila dollari. Qualche giorno fa ci siamo imbarcati tutti e 4 su un barcone: niente valigie, nessun vestito, non abbiamo potuto portare niente con noi. 300 persone ammassate in uno spazio piccolissimo, senza possibilità di muoverci, senza servizi igienici, senza alcuna protezione e soprattutto senza alcuna certezza di toccare terra sani e salvi. Abbiamo viaggiato per 12 ore, poi ci hanno buttati tutti in mare aperto dove ci ha soccorso una grande nave in cui abbiamo trascorso 3 giorni prima di sbarcare a Taranto”.

Il viaggio della speranza: 1000 dollari a testa, esclusi i bambini, per scappare dalla guerra e dalla miseria, per consegnare un futuro migliore alle figlie, per salvarsi la vita.

Cosa vi ha spinto ad intraprendere un viaggio così pericoloso? “L’importante era scappare dalla morte”, mi dice. “Una volta a Taranto un’equipe di medici ci ha visitati, sono stati tutti molto gentili e scrupolosi. Ci hanno portati in un grande campo sportivo, ci hanno fatti lavare, pulire e vestire, ci hanno identificato e rilasciato un foglio e con un pullman ci hanno trasferiti qui. Dopo quello che abbiamo passato negli ultimi anni questo posto sembra un paradiso, perlomeno qui siamo al sicuro”.

Chiedo loro cosa pensano di fare ora, se hanno parenti o amici da qualche altra parte, se hanno progetti per il prossimo futuro. “Non abbiamo più soldi – continua N. – Tutto quello che avevamo lo abbiamo speso per arrivare qui. I nostri parenti in Siria sono spaventati da questo lungo e rischioso viaggio per scappare dalla guerra, ma lì non si riesce più a vivere. Il nostro problema più grande, in quanto palestinesi, è che non possiamo andare da nessuna parte, il nostro paese non è riconosciuto, ci sentiamo odiati da tutti, anche nei paesi arabi. Basta vedere quello che sta succedendo ancora oggi a Gaza”.

Nel frattempo J. e H., le due bambine, si sono avvicinate e siedono accanto ai genitori. Hanno vestiti e scarpe di fortuna, gli unici che gli hanno fornito. Anche il resto del gruppo ha superato la diffidenza iniziale e mi racconta, con il dolore e il sollievo di chi ha perso tutto ma ha la fortuna di non essere solo, di avere i propri cari accanto. Stanno bene, sono lontani dalle bombe, dalla fame, dalla distruzione. Ora è questo che conta.

Quello che resta

11 aprile 2014

stefania

Quello che resta sono le statistiche, le cifre, i numeri che preferiremmo non conoscere.
Quello che resta è la giustizia da una parte e l’ingiustizia dall’altra.
Quello che resta è la nostra capacità di scegliere tra le due, ogni giorno.
Quello che resta è una stanza vuota, ancora arredata di tutto punto, con una chiara predilezione per l’arredamento etnico.
Quello che resta sono gli occhi lucidi. L’incredulità. Il senso di colpa.
Quello che resta è la nostra propensione alla distrazione.
Quello che resta è il rosa per le femminucce e il blu per i maschietti.
Quello che resta sono le bandiere arcobaleno.
Quello che resta sono le dediche, gli striscioni, le targhe, la musica, i convegni.
Quello che resta è la possibilità, a volte peggio la certezza, che accada di nuovo tutto, domani. Che magari stia già accadendo, in questo esatto momento.
Quello che resta sono le cicatrici sul volto e su tutto il corpo di Gaetana Ballirò.
Quello che resta sono i ricordi, quelli tristi ma anche quelli felici.
Quello che resta è il futuro.
Quello che resta sono i cortei mezzi vuoti, le cronache rassegnate.
Quello che resta è una sentenza.

Resta anche lei, Stefania, una di noi. Resta il ricordo di una giovane femminista militante uccisa da quella violenza contro cui credeva di combattere. Resta il mal di stomaco, la nausea, la rabbia nel rileggere la sua storia, troppo breve. Resta l’amarezza nel riconoscere percorsi già tracciati. Resta chi pensa che no, a me non può succedere. Resta chi pensa che il femmicidio non esiste. Resta, qualcosa resta sempre, anche quando è qualcuno a andarsene, per sempre!

Stefania Noce. 24 anni. Uccisa dal fidanzato con 10 coltellate

Per un buon inizio

19 dicembre 2012

ci siamo, l’anno sta per finire, e forse finirà tutto in anticipo se i maya o la hack hanno ragione. maya o non maya, margherita o no, quest’anno i segni della fine li abbiamo sentiti tutti, chi più chi meno. io di più. si, ho visto da vicino la morte più violenta, poi la violenza delle malattie che ti prendono in un punto e ti mangiano tutto, inesorabili, poi la violenza più meschina, quella degli uomini sulle donne, poi quella più intima, della fine di una storia. Per non parlare del mondo fuori di me e di tutte quelle volte che ci siamo scontrati violentemente. si, se dovessi dire in una parola il 2012 direi VIOLENZA. ma siamo alla fine.

e allora quest’anno i miei regali saranno per un inizio, uno buono, collettivo:

alle compagne un bel luogo occupato, da tutte noi, a garbatella, preferibilmente caldo d’inverno e fresco d’estate, accompagnato da un gran reddito di esistenza

alle colleghe un altro posto di lavoro, più sereno e rilassato, onde evitare l’inevitabile trasformazione vetero-burocratico-statale

alla redazione del giornale uno spazio durango che spacca, pieno, ricco, colorato, affollato

alle amiche che non ce l’hanno un principe azzurro, a quelle che già ce l’hanno il principe di riserva (che fa sempre comodo)

ai maschi, quelli che amo di più, un pacco regalo con dentro qualche libro scritto da donne, un tanga rosso fuoco, il decalogo della sessualità (la loro) e un pizzico di verità

a tutti gli altri una donna da ascoltare davanti a una birra

alla mia famiglia, larga e allargata, un semplice e grande abbraccio

al mio piccolo gioiello – che è la mia gioia più grande – tutto quello che mi chiede

per me invece un viaggio, il primo dell’anno, e poi i sorrisi di chi è felice di vedermi, le energie positive di chi mi pensa e ricorda con amore, le risate di chi mi capisce al volo, gli sguardi di chi è complice, i pensieri di chi condivide, le parole di chi ha qualcosa da dire, le lettere di chi non riesce a dirle, gli abbracci e i baci sinceri, gli scazzi di chi non vede e non sente e non fa, i conflitti più sani con chi li sa tenere, gli scontri più duri con chi non regge. e poi un altro lavoro anche io, e un principe, magari rosso, e una e mille birre davanti a una e mille donne che mi parlano.

Corri, ma non scappare

23 novembre 2012

Un’amica e compagna, di lunghi viaggi – fisici e simbolici –, di politica, di confidenze, l’ha chiamato “il giorno dopo”, e ha ragione. A me arriva un po’ più tardi, perché si deposita, a strati, quella nausea stanca, quella rabbia  impotente, quella consapevolezza che vorrebbe farsi forza ma a volte si fa  tristezza.

Corri e scappa che ci prendono, chiuse nelle splendide strade del centro capitolino, che non mi erano mai apparse così strette e invasive. Bombe, morte, corpi dilaniati, bambini insanguinati, per un conflitto, lungo, di autodeterminazione. Giornate contro la violenza, adolescenti suicidi, femminicidio, omofobia, fiaccolate, fumetti, pantaloni rosa, teatri, assemblee, incontri, riunioni.

Coloro che mi hanno maltrattata vinceranno se non faccio qualcosa della mia vita dice Nicole. Sì, è questo. Occhi tumefatti, braccia rotte, coltelli in gola, silenzi, ricatti, persecuzioni. “L’assassino ha le chiavi di casa”, urlavano le donne 5 anni fa. E ce l’hanno pure adesso. E fa male, ogni volta, e troppo
spesso. Ieri Roberta Lanzino. Ragazza.

Ieri anche Andrea. Ragazzo.

Saturante, ha detto una donna parlando di Carla Lonzi, in sospensione, ha
detto un’altra parlando delle nostre vite, psicologicamente a terra, mi ha
confidato un’altra ancora.

Eppure siamo sempre qui e lì, in quel teatro, in quella piazza, in quella casa, con corpi stremati ma desideranti, con parole forti e di invenzione, con pratiche genealogiche. Ci siamo, e poi siamo sempre noi, ma ne vogliamo altre.

E ancora, corri, ma non scappare. Fermati, guardati intorno, cerca lo sguardo delle altre, trovale, eccoci!

Se torna il sereno

27 dicembre 2011

Un ufficio silenzioso e silente, ancora assopito. Risveglio da giorni calorosi, di unione e condivisione, di giochi e risate, di bimbi felici di fronte a un libro parlante, di donne sorridenti e soddisfatte di fronte a una tavola imbandita, di giovani chiusi in casa davanti a un camino e annebbiati dai fumi, di coppie innamorate sotto alberi illuminati, di folle impazzite per le vie della città, di vecchi impegnati a ricordare il passato e a immaginare un futuro, di vite spezzate, di famiglie divise, di crisi persistenti.

Un’irruzione violenta e volgare, per un risveglio brusco. Brividi attraversano il corpo e gelano il cuore. Riportano nell’umido della terra che si fa fango, e investe corpi e pensieri, li copre, li soffoca. Nel presente che non riesce a farsi futuro, nelle lettere che non riescono a comporre frasi, nei suoni che non riescono a farsi melodia, nei gesti che non possono indicare la strada. E’ il nostro tempo, quello che viviamo e abitiamo, dal quale fuggiamo rifugiandoci, nelle case, nei romanzi, nelle relazioni. Sospesi su nubi insidiose, pronti a precipitare, alla disperata ricerca di paracaduti che possano ammorbidire la caduta. La salvezza nelle relazioni intrecciate, coltivate, disperse, ricominciate. In quelle politiche fatte di corpi, nella voglia di vedersi, toccarsi, stare insieme, pensare insieme. E’ lì che le nubi si disperdono e torna il sereno.

Piazze e date

18 ottobre 2011

Io amo la storia ma le date non mi sono mai entrate in testa. C’è chi dice che senza date non c’è storia, io dico che non c’è storia senza narrazione, senza donne e uomini, senza quella politica che lavora per il cambiamento, per le rotture, per ricucire, per spostare, per “rivoluzionare”.

In questi anni di vita politica ho imparato sul mio corpo e sulle mie pratiche che le date portano con sé un significato importante, ma continuano a non piacermi, e continua a non piacermi l’uso che se ne fa. In quest’ultimo anno sono stata costretta ad associare corpi e modalità politiche e simbolico a quelle date: il 16 ottobre, il 14 dicembre e poi il 22, il 13 febbraio, il 9 aprile, e ora il 15 ottobre. Date in cui ci sono stata, con il mio corpo, insieme alle altre e agli altri, quando organizzata, quando indipendente, quando scettica, quando emozionata, sopra un carro, in un corteo, in una piazza enorme, seduta per terra, e infine di corsa, anche spaventata, tra lacrimogeni, incendi, caschi e blindati.

Devastazione e violenza organizzata, così hanno definito ciò che è andato in scena sabato 15 ottobre. Io credo sia qualcosa di più: la guerriglia urbana, sì organizzata e prevista, ma anche prevedibile, è il sintomo di una conflittualità acre e radicale, le cui motivazioni vanno rintracciate in un disagio profondo, per gli spazi (non) abitati, per gli abusi subiti, per le parole (non) dette, per la politica (non) agita.

E’ un tempo strano il nostro, quello che quotidianamente viviamo e attraversiamo, con i nostri corpi, le nostre parole, la nostra politica. In cerca della ricomposizione, di un senso comune, di una dimensione collettiva, ricerca che non deve fermarsi davanti a una piazza distrutta, una madonna in pezzi o cassonetti e auto bruciate. La condanna è legittima, la perdita di spazi, forze e energie no.

Guardare indietro, raccogliere e continuare, con le altre e con gli altri, perché la mia politica è fatta di corpi e relazioni, non di date. Guardare indietro perché il 15 ottobre è una di quelle date che porta con sé un significato importante, raccogliere perché ciò che è stato – il corteo, la piazza, gli scontri – ci hanno parlato e ci parlano, ed è un errore rimanere sordi, continuare perché siamo donne e uomini carichi di saperi, esperienze, linguaggi che possono parlare a tutte e tutti, e dobbiamo continuare a farlo!

Il vento sta cambiando

24 febbraio 2011

Ancora tetti, bandiere, gru, diritti calpestati, rivendicazioni pericolose, indifferenza diffusa. Di nuovo corpi esposti utilizzati per prendere parola, ancora sciacalli senza vergogna, di nuovo grida, lacrime e rabbia. Scene già viste, storie già vissute, ma il vento, tanto tanto vento. Qualcosa si muove: bandiere che sventolano più forti, voci che echeggiano più lontano, relazioni che si intrecciano più potenti, lavoratori che si incontrano, e si uniscono. Il vento sta cambiando, deve cambiare: ripartiamo dal lavoro!

Esserci

7 febbraio 2011

Non abbiamo perso la nostra dignità, non dobbiamo dividerci in “escort” e “perbene”, non dobbiamo lasciare che il potere maschile e maschilista strumentalizzi il nostro corpo, nè quando ci invita ad essere escort nè quando ci chiede di dimostrare il contrario, non dobbiamo parlare perchè qualcuna ci accusa di “silenzio”, non dobbiamo manifestare perchè qualcuno ci “chiama alle armi”, non dobbiamo farci sentire da chi non ha mai avuto voglia di ascoltarci, ma dobbiamo esserci, solo questo, ognuna con la sua urgenza, perchè siamo con le donne, non contro!

C’era una volta il mondo del lavoro

11 ottobre 2010

C’era una volta un gruppo di donne, giovani donne, una trentina circa. C’era una volta un posto di lavoro fatto di mura colorate, telefoni, cuffie, postazioni, tornelli. C’era una volta un mondo, il mondo del lavoro, che fungeva semplicemente: io lavoro, tu mi paghi. Ad un certo punto le giovani donne sono insorte, sono insorte perchè il mondo si era complicato, loro lavoravano, ma nessuno le pagava, per un giorno, per una settimana, per un mese, per un anno… I loro bambini non avevano niente di cui nutrirsi o vestirsi, le giovani donne non avevano i soldi per comprarsi un trucco, non potevano neanche mascherare la loro rabbia, la loro frustrazione. Ad un certo punto si sono guardate, hanno visto il fondo, lo hanno visto sui loro visi, nei loro occhi, e per non precipitare sono salite, salite su un tetto, poi su un grattacielo, sventolando una bandiera, la loro, quella della rivendicazione. dei soldi sì, ma anche della dignità. e ora sono lì, tra le mura colorate di quel luogo di lavoro che da prigione si è trasformato in libertà, la libertà di dire, la libertà di fare, la libertà di gridare al mondo intero la loro storia. e se tutti non vissero felici e contenti, loro vissero consapevoli e libere.

tratto da una storia vera

ogni riferimento a cose o persone non è per nulla casuale

Giustizia fai da te

20 settembre 2010

L’Apriliano, 15 settembre 2010.

Si è urlato all’allarme sicurezza nei giorni scorsi ad Aprilia, dopo gli svariati episodi di violenza e criminalità che si sono consumati in città: i furti in periferia, l’aggressione ad una giovane ragazza di 21 anni. L’allarme c’è, e su questo non vi è dubbio, lo hanno dichiarato anche il sindaco Domenico D’Alessio e gli esponenti politici, sia a destra che a sinistra: “C’è bisogno di maggiore controllo, è necessaria una presenza massiccia di forze dell’ordine sul territorio, in periferia come in centro”. Ma c’è un altro allarme, a mio parere, che dovrebbe far riflettere cittadini ed istituzioni. Quello che è accaduto negli ultimi giorni in città è un fatto di per sé grave, ma la risposta di alcuni cittadini lo è forse ancora di più. Dopo i ripetuti furti in via della Riserva Nuova alcuni residenti hanno pensato bene di “farsi giustizia da sé”, sparando in aria per diverse sere di seguito alcuni colpi di fucile con la speranza di allontanare malviventi e malintenzionati. Farsi giustizia da sé non significa soltanto cercare di proteggere il proprio orticello, casa e famiglia, ma significa soprattutto mancanza di fiducia verso il governo cittadino e verso le istituzioni in genere, in primo luogo verso le forze dell’ordine che, per definizione, hanno il dovere di mantenere l’ordine in città. E’ questo ciò che più di ogni altra cosa dovrebbe sconvolgere i piani alti di Aprilia, il fatto che i cittadini, spaventati ed esausti, ritengano di dover e poter trovare una soluzione diversa da quella ordinaria, vale a dire avvertire carabinieri e polizia. E fa riflettere quanto poco si sia parlato di questa “giustizia fai da te” fatta di ronde e armi sotto il cuscino, sintomo di una società che risponde alla violenza con la violenza. Tutto questo se la violenza entra a rovinare il “proprio orticello”, perché se a subire violenza è una sconosciuta, una giovane donna, alla luce del sole, un pomeriggio, in via Cagliari, molti non ritengono più necessario “fare giustizia”, perché se ad essere aggredita non è una madre, una moglie o una sorella, ma è “soltanto” un’estranea, anche se in evidente difficoltà, quello che regna in città è piena indifferenza. Mi riferisco ovviamente all’aggressione subita dalla 21enne di Aprilia il 3 settembre scorso quando, avvicinata da tre uomini, è stata strattonata, spinta e gettata contro un muro. La ragazza se l’è cavata con qualche livido e qualche contusione, è molto probabilmente scampata ad uno stupro, e questo grazie all’aiuto di un ragazzo che è venuto in suo soccorso quando si è reso conto di cosa stava accadendo. Ma prima del suo arrivo – lo ha dichiarato la ragazza stessa – nessuno si è fermato, nessuno ha pensato bene di mettere in fuga i malviventi, e per questo non sarebbe certo servito un colpo di fucile, sarebbe bastata un po’ di sensibilità a ciò che accade in città, anche se fuori dal proprio orticello.

T.D.M.