Ancora tetti, bandiere, gru, diritti calpestati, rivendicazioni pericolose, indifferenza diffusa. Di nuovo corpi esposti utilizzati per prendere parola, ancora sciacalli senza vergogna, di nuovo grida, lacrime e rabbia. Scene già viste, storie già vissute, ma il vento, tanto tanto vento. Qualcosa si muove: bandiere che sventolano più forti, voci che echeggiano più lontano, relazioni che si intrecciano più potenti, lavoratori che si incontrano, e si uniscono. Il vento sta cambiando, deve cambiare: ripartiamo dal lavoro!
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Il vento sta cambiando
24 febbraio 2011Giustizia fai da te
20 settembre 2010L’Apriliano, 15 settembre 2010.
Si è urlato all’allarme sicurezza nei giorni scorsi ad Aprilia, dopo gli svariati episodi di violenza e criminalità che si sono consumati in città: i furti in periferia, l’aggressione ad una giovane ragazza di 21 anni. L’allarme c’è, e su questo non vi è dubbio, lo hanno dichiarato anche il sindaco Domenico D’Alessio e gli esponenti politici, sia a destra che a sinistra: “C’è bisogno di maggiore controllo, è necessaria una presenza massiccia di forze dell’ordine sul territorio, in periferia come in centro”. Ma c’è un altro allarme, a mio parere, che dovrebbe far riflettere cittadini ed istituzioni. Quello che è accaduto negli ultimi giorni in città è un fatto di per sé grave, ma la risposta di alcuni cittadini lo è forse ancora di più. Dopo i ripetuti furti in via della Riserva Nuova alcuni residenti hanno pensato bene di “farsi giustizia da sé”, sparando in aria per diverse sere di seguito alcuni colpi di fucile con la speranza di allontanare malviventi e malintenzionati. Farsi giustizia da sé non significa soltanto cercare di proteggere il proprio orticello, casa e famiglia, ma significa soprattutto mancanza di fiducia verso il governo cittadino e verso le istituzioni in genere, in primo luogo verso le forze dell’ordine che, per definizione, hanno il dovere di mantenere l’ordine in città. E’ questo ciò che più di ogni altra cosa dovrebbe sconvolgere i piani alti di Aprilia, il fatto che i cittadini, spaventati ed esausti, ritengano di dover e poter trovare una soluzione diversa da quella ordinaria, vale a dire avvertire carabinieri e polizia. E fa riflettere quanto poco si sia parlato di questa “giustizia fai da te” fatta di ronde e armi sotto il cuscino, sintomo di una società che risponde alla violenza con la violenza. Tutto questo se la violenza entra a rovinare il “proprio orticello”, perché se a subire violenza è una sconosciuta, una giovane donna, alla luce del sole, un pomeriggio, in via Cagliari, molti non ritengono più necessario “fare giustizia”, perché se ad essere aggredita non è una madre, una moglie o una sorella, ma è “soltanto” un’estranea, anche se in evidente difficoltà, quello che regna in città è piena indifferenza. Mi riferisco ovviamente all’aggressione subita dalla 21enne di Aprilia il 3 settembre scorso quando, avvicinata da tre uomini, è stata strattonata, spinta e gettata contro un muro. La ragazza se l’è cavata con qualche livido e qualche contusione, è molto probabilmente scampata ad uno stupro, e questo grazie all’aiuto di un ragazzo che è venuto in suo soccorso quando si è reso conto di cosa stava accadendo. Ma prima del suo arrivo – lo ha dichiarato la ragazza stessa – nessuno si è fermato, nessuno ha pensato bene di mettere in fuga i malviventi, e per questo non sarebbe certo servito un colpo di fucile, sarebbe bastata un po’ di sensibilità a ciò che accade in città, anche se fuori dal proprio orticello.
T.D.M.
Diversa…da chi?
23 giugno 2010C’è qualcuno che continua a ripetermi che sono diversa. diversa dalle persone che ha conosciuto e conosce, diversa dalle donne che ha incrociato nella sua vita, diversa nei miei lavori, diversa nel comportamento, diversa nel pensiero, diversa nella parola, diversa negli affetti, diversa nella cura…
questa diversità, ho scoperto, può mandare in crisi chi non è pronto ad accoglierla.
mi stupisco ogni volta del vigore che ha la paura del diverso intorno a noi. vivo così tanto nella certezza che la differenza sia una ricchezza che ogni volta è come ricadere giù dopo una faticosa e ripida salita, e rialzarsi, socchiudere gli occhi per mettere a fuoco quel punto più alto, farsi forza e ricominciare a salire, gradino dopo gradino…
mi stupisco, ogni volta, di ricominciare a salire con un sorriso, come se cadere giù fosse la prova che qualcosa si è mosso.
Il viaggio della speranza
14 gennaio 2010E’ una mattina, mattina presto. Si gela.
Le auto che percorrono la strada della stazione sono avvolte in una fitta nebbia che ai romani, per niente abituati a queste temperature e a un clima così cupo, incute timore. La stazione è viva, come ogni mattina, ma c’è silenzio. Eppure c’è tanta gente, la banchina è una lunga coda di corpi irrigiditi dal freddo. Si capisce che sono vivi dalle nuvolette d’alito che escono dai nasi e dalle bocche che faticano a respirare. Il treno d’evessere in ritardo, troppa gente.
“Annuncio ritardo” si sente dall’altoparlante. Nessuno ha la forza di protestare, ma la disperazione e la rabbia si leggono in oguno dei volti che riesco a intravedere da dietro la lana della sciarpa, tirata su fino al naso, e da quella del cappello, tirato giù fino agli occhi.
Sembra il set di un film, uno di quelli ambientati nella Russia zarista, e qualche copricapo che si scorge qua e là ci starebbe anche bene, il mio per primo. Invece è un’ordinaria mattina di gennaio alla stazione, con tante ordinarie persone che sono lì, come ogni mattina, da anni, mesi, giorni o solo per la prima e ultima volta, ad aspettare con ansia un treno che si lascia desiderare troppo spesso.
Eccolo, arriva. E’ pieno, come al solito.
Nessuno ha intenzione di aspettare quello dopo (chiassà quando passerà?). Ci accalchiamo alle porte, saliamo, uno sopra all’altro, a forza di spintoni e pestate di piedi. Siamo dentro, tutti. Siamo appiccicati come sardine. Sento il calore della gente, è fratellanza, comprensione e complicità.
Sarà il freddo.
Sarà la comunità dei pendolari.
Persone-libro
5 gennaio 20108 gennaio 2010- ore 20.00
Tuma’s Book Bar, via dei Sabelli, 17 (San Lorenzo)
L’associazione culturale Donne di carta promuove una marcia di solidarietà con il popolo iraniano.
E lo fa con le voci delle persone-libro in omaggio a Forugh Farrokhzad.
Vera
17 dicembre 2009La giovane donne è seduta di fronte a me. Mi guarda. Io la guardo. E’ amore a prima vista.I suoi occhi scuri, profondi, mi fissano, mi entrano dentro, parlano al mio cuore. Si chiama Vera, ha degli orecchini bellissimi, rossi, come le scarpe. Scarpe di vernice, tacco 10 o 12. Ha un abbigliamento provocante, maglia nera che lascia intravedere un bel decolté, un neo poco sopra il seno destro, minigonna corta, troppo corta, che scopre due lunghe gambe poco curate, stanche. Il viso è allungato, labbra sottili accentuate da un rossetto, anch’esso rosso, zigomi esaltati da un tocco di cipria. Ma gli occhi, quelli non sono truccati, sono i suoi, occhi grandi, e tristi.
Mi parlano, mi raccontano ciò che hanno visto e ciò che stanno per vedere ancora una volta, ciò che ormai si ripete da tempo, tutti i giorni, tutte le sere, tutte le notti. Vedono violenza, violenza mascherata da piacere, un piacere fisico, animale, ancestrale. Vedono uomini disperati che godono nel possedere quel corpo, ma che non li guardano mai quegli occhi, perché quegli occhi sono sempre chiusi quando Vera lavora, ma loro vedono e sentono, non basta chiuderli per non vedere. Sono loro che mi parlano, che mi raccontano di Vera.
E’ giovane, veramente giovane, forse poco più che maggiorenne, ma il suo corpo no, è vecchio, desolato, stanco, il suo viso è triste, il trucco non può nasconderlo, le sue braccia magre, livide, non lasciano spazio a dubbi. Lei vive circondata dalla violenza, lei vive circondata da uomini, uomini cattivi, che si servono di lei per guadagnare denaro, che si servono del suo corpo per soddisfare i propri impulsi, per sfogare le proprie umiliazioni, le proprie sconfitte, le proprie frustrazioni. Solo i suoi occhi riescono a dirmi della sua giovinezza, della vita rubata, della voglia di fuggire a tutto questo, della paura a farlo.
Vera è una prostituta, una delle tante ragazze portate via dal proprio paese e dalla propria famiglia con la promessa di una vita migliore, e poi sbattute come cani randagi in mezzo alla strada, costrette a passare lì le loro giornate, su un marciapiede, tra i cespugli, in un camion, in un’auto, addestrate a provocare chi passa per la loro strada, a vendersi il meglio possibile, e non al miglior offerente, a tutti, perché devono fare soldi, perché i soldi servono a far girare il traffico di chi le sfrutta, perché se quei soldi non li guadagnano si ritrovano ad essere il bersaglio della brutale violenza dei loro sfruttatori.
Vera mi guarda. Guarda le mie scarpe comode, i jeans e la maglia che fanno molto brava ragazza, la giacca è il sentore che sono lì seduta di fronte a lei perché anche io sto andando a lavorare. Guarda il mio viso, rotondo e olivastro, non c’è un filo di trucco, fa molto acqua e sapone. I miei occhi, scuri come i suoi, le parlano, le raccontano ciò che hanno visto e ciò che vedono ora.
Lei si vede nei miei occhi, è questo l’amore no?
Sa che la sto ascoltando e non giudicando, sa che non c’è compassione, non c’è pena, ma c’è solo comprensione e rabbia. Rabbia perché semplicemente non è giusto, non è giusto che lei stia lì di fronte a me, seduta come me, ma vestita così perché deve esserlo, pronta per una giornata di lavoro che odia più di qualsiasi cosa. Comprensione perché capisco come si sente, so che vuol dire essere costretta ad andare lì, quel posto di lavoro, un ufficio nel mio caso, soddisfare le richieste di persone che non guardano mai i miei occhi, ma che sono solo interessate al guadagno che io possa portare loro. E’ una violenza diversa, ma è violenza, è una prostituzione diversa, ma è prostituzione. La prostituzione del corpo e quella del pensiero, Vera ed io, una di fronte all’altra. Lei si prostituisce per sopravvivere, nel vero senso della parola; io mi prostituisco per… per cosa?
I suoi occhi me lo stanno chiedendo: perché lo fai? tu che puoi scegliere? Lo faccio anch’io per sopravvivere, nel senso di vivere con agio e non di non morire, in questa società. Qualcuno ha ingannato Vera quando le ha promesso una vita migliore, la nostra società ha ingannato me quando mi ha fatto credere di essere libera di poter scegliere la mia vita, il mio lavoro, la mia strada. Lei è costretta su un marciapiede tutto il giorno, io in un ufficio; lei deve sottostare quotidianamente ad una violenza fisica che le fa sanguinare il cuore, io ad una violenza psicologica ed emotiva che il cuore lo congela. Le dico che non siamo poi tanto diverse, che potremmo scambiarci di posto senza troppi sconvolgimenti, che lei cerca qualcuno che la ascolti e la aiuti e che io cerco lo stesso, una persona che mi dica che tutto quello per cui sto lottando non è un sogno irrealizzabile, che non ho sbagliato tutto, che arriverà il giorno in cui tutti i tasselli torneranno al posto giusto.
Lei cercava me, io cercavo lei. Ci siamo incontrate una mattina di ottobre su un autobus mezzo pieno che viaggia tra le vie grandiose e rumorose di Roma, ci siamo confidate senza parlarci, ci siamo capite senza spiegarci, ci siamo amate perché tanto diverse e tanto simili.
Devo scendere, la mia corsa finisce qua, la sua no. Io lavoro in centro, lei no.
Mi alzo senza togliere i miei occhi dai suoi, non voglio smettere di parlare con il suo cuore, so che non la rivedrò più. E’ lei a decidere, lei è più forte. La giovane donna che era seduta di fronte a me abbassa lo sguardo, perdo il calore dei suoi occhi, sento freddo. Lei porta la mano all’orecchio sinistro, si toglie lentamente l’orecchino bellissimo, lo guarda, me lo porge senza alzare la testa. E’ un regalo per me. Lo prendo, tocco la sua mano, è fredda, ha freddo anche lei.
Scendo dall’autobus con il suo orecchino tra le dita, è bellissimo. Mi incammino, faccio tre passi e sento un brivido improvviso che mi attraversa la schiena, sono i suoi occhi! Mi giro mentre le porte del mezzo si chiudono, lei è ancora lì, una giovane donna che va a lavorare. Le manca un orecchino, il sinistro. Mi guarda, il suo viso allungato e truccato è ancora stanco, ma i suoi occhi sorridono. E’ un saluto, è un felice addio. Le sorrido anch’io, ma i miei occhi sono tristi. Scende una lacrima, mi riga il volto.
Seguo l’autobus che si allontana, è nato un amore lì dentro questa mattina. Entro in ufficio. Abbigliamento da brava ragazza, viso acqua e sapone. Quell’unico orecchino rosso al mio orecchio sinistro stona. Ma è bellissimo…